Tranquilla e senza scosse si svolse la vita di Abellinum durante i primi secoli dell'impero, Fino a quando vennero a turbarla le lotte e le persecuzioni religiose. Il cristianesimo si diffuse ad Abellinum nella seconda metà del III secolo. Dopo aver fatto inizialmente proseliti tra le persone di umile condizione, non tardò a diffondersi nel ceto medio ed a conquistare persino alcuni membri dell'aristocrazia senatoria, fiera dei culti e delle tradizioni degli avi, che sembravano inscindibili dalla grandezza di Roma. Ma nel complesso fu proprio in questo ceto, a cui appartenevano le pubbliche autorità ed i sacerdoti, che la nuova religione trovò ostinata ed accanita resistenza, suscitando persecuzioni che fecero versare il sangue di numerosi martiri.
Ma prima di narrare le vicende che condussero alla cristianizzazione di Abellinum sarà opportuno far cenno brevemente ai culti, alle divinità ed ai templi pagani della città. Questa era stata posta da Siila sotto la protezione di Venere, dea prediletta dal dittatore romano, e ad Abellinum alla dea era stala naturalmente dedicato un tempio, senz'altro uno dei più antichi della città, la cui esatta ubicazione è ancora ignota. Il tempio principale era però il "Capitolium", che sorgeva probabilmente nella zona del Foro (alle spalle dell'attuale cimitero di Atripalda), e che, ad imitazione di Roma, era dedicato a Giove, Giunone e Minerva. Fuori della cerchia cittadina, sul culmine della collina del castello medioevale di Atripalda, si trovava invece l'importante tempio di Diana, che vedremo teatro delfa memorabile predicazione di S. Ippolisto. Un altro tempio, o meglio "oracolo", di Giove sorgeva su di una collina prossima alla città. Nei dintorni della città vi erano poi dei piccoli "santuari", dove si veneravano Silvano, dio dei boschi, e Marte, dio
della guerra.
Ad Abellinum esistevano inoltre, come è attestato dalle epigrafi, dei "collegi" di sacerdoti pagani, come quelli degli "Augustales" e degli "Augustales Claudiales", riservati alla classe dei liberti ed addetti al culto di Augusto e Claudio divinizzati, e dei "Mercuriales", addetti al culto di Mercurio, dio protettore dei mercanti e del commercio. Ad Abellinum, quindi, i culti pagani erano diffusi e numerosi, ed esisteva pure una articolata ed influente gerarchia sacerdotale.
Il primo e grande apostolo degli Abellinati fu S. Ippolisto. 11 padre, un orientale, Firmio Stacteo, si era trasferito da Antiochia ad Abellinum all'epoca del riordinamento della colonia effettuato da Alessandro Severo intorno al 230 d.Cr., e vi aveva sposato Fodiola Rosana, di nobile famiglia locale. L'importanza del riordinamento della colonia abellinate ad opera di Alessandro Severo è stata finora non adeguatamente messa in rilievo dagli storici di Abellinum. In realtà, l'immissione nella città di numerose famiglie orientali, come quella del padre di S. Ippolisto, dovette senz'altro avere delle conseguenze notevolissime, sia demograficamente che economicamente e culturalmente. I nuovi venuti trapiantarono probabilmente nella nuova patria alcuni di quei culti misterici e monoteistici (come quello del Sole), che a quel tempo fiorivano in Oriente. E non è neppure improbabile che tra essi vi fossero anche dei cristiani, poiché fino ad allora il Cristianesimo si era diffuso molto più in Oriente che in Occidente. La predicazione cristiana avviata dalla generazione succesiva a quella dei coloni venuti da Antiochia trovò così ad Abellinum un ambiente religiosamente evoluto e cosmopolita, e quindi più pronto a recepire il messaggio evangelico. Ciò contribuisce a spiegare come Abellinum sia stata, tra le antiche città irpine, la prima ad avere una cospicua comunità cristiana, con numerosi martiri, ed a divenire sede vescovile già nel IV secolo, se non addirittura alla fine del III. L'assoluta coerenza di vita, la parola rapida e tagliente, la fede ardente ed appassionata, l'elevata cultura, resero presto S. Ippolisto il capo naturale della comunità cristiana di Abellinum. Nato nel 226, al compiere dei dieci anni Ippolisto fu inviato dal padfead Antiochia per esservi educato alla cultura classica dal celebre grammatico Babila. Ma questi, convertitosi al Cristianesimo e divenuto vescovo di Antiochia, trasmise, oltre al sapere, anche la fede al suo discepolo, che consacrò poi sacerdote. Martirizzato Babila durante la persecuzione di Decio (249-251 d.Cr.), Ippolisto fece ritorno ad Abellinum.
Ma qui i genitori, scopertane con orrore la fede cristiana, dopo aver tutto tentato per ricondurlo al culto avito, lo segregarono a lungo in una parte remota della casa. Riacquistata poi la libertà e ricevuta l'ordinazione sacerdotale, Ippolisto si diede ad una intensa opera di conversione e di proselitismo. Ma soltanto nel 282, ritornato da un decennio di esilio ad Antiochia, egli diede inizio al suo grande apostolato pubblico. Grande doveva essere il fascino esercitato dalla figura dell'apostolo, che, educato alla più raffinata ed aristocratica cultura classica, aveva raccolto e fatto proprio il messaggio evangelico, abbandonando famiglia e posizione sociale per farsi povero tra i poveri, umile tra gli umili. Ma in quest'uomo che aveva rinunziato alle tentazioni del mondo ferveva una fede vivissima ed inflessibile, che non conosceva compromessi e che lo portava a sfidare apertamente e pubblicamente il paganesimo ed i suoi culti. I tempi erano del resto ormai maturi, e la piccola comunità cristiana di Abellinum stava per uscire dall'oscurità e dalla semiclandestinità per dare testimonianze luminosissime di fede e di sacrificio.
Fino al allora, difatti, l'opera di apostolato si era svolta nell'ombra, in privato o addirittura in segreto, e divenne quindi il simbolo della rottura aperta, definitiva, con la classe dirigente pagana l'episodio di cui si rese protagonista S.Ippolisto in occasione di una festa di Diana, che si svolgeva presso il tempio dedicato alla dea, su una collina fuori della città. Il Santo osò allora predicare pubblicamente alla folla, invitandola a rinnegare i falsi dei.
Dopo questo clamoroso episodio, S. Ippolisto, per sfuggire all'ira dei pagani, fu costretto a rifugiarsi in un "segreto oratorio", da identificare con le catacombe di Prata, da dove poi, attenuatasi la persecuzione, anche per l'opera di pacificazione degli animi svolta dall'influente senatore Quinziano, già da lui convertito, il santo potè far ritorno in città. Ma la lunga ed operosa vita di S. Ippolisto, spesa tutta al servizio di Cristo, era destinata a concludersi col martirio. Questo avvenne alcuni anni più tardi, durante l'ultima e più accanita persecuzione anticristiana, quella di Diocleziano.
II primo maggio del 303, festa di Giove, veniva condotto al tempio del dio un toro con le corna dorate, designato al sacrificio. Lo seguiivano in solenne corteo le autorità ed i sacerdoti, oltre a gran rilassa di popolo. Ma, iniziato appena il rito, apparve la venerata e canuta figura di S. Ippolisto, che tentò nuovamente di predicare al popolo. Questa volta, però, i magistrati furono prontiva reagire decisamente, ordinando l'arresto immediato del santo, assalito ed oltraggiato frattanto dalla folla fanatizzata. Sottoposto a giudizio, fu condannato ad essere trascinato da un toro infuriato fino al luogo del supplizio, sulle rive del Sabato, dove due littori, troncatagli la testa dal busto con quattro colpi di scure, la gettarono nel fiume, lasciando il corpo insepolto.
Ma la morte del santo, lungi dal segnare la fine della comunità cristiana di Abellinum, come i persecutori si erano proposti, ne esaltò invece la fede e la vocazione al martirio. Le matrone Massimilla e Lucrezia, figlie del senatore Massimiano, che, violando il feroce decreto dei magistrati, in segreto avevano pietosamente raccolto il corpo di S. Ippolisto, dando ad esso sepoltura nel sotterraneo ("crypta") di una loro villa di campagna, vicina al luogo del supplizio, furono infatti condannate ad essere strangolate dai littori. Altra vittima illustre della feroce persecuzione fu il senatore Quinziano, che era stato da tempo convertito da S. Ippolisto. Il martirio di Quinziano fu reso ancora più tragico e toccante dalla contemporanea uccisione dei suoi figli, Ireneo e Crescenzio, di dieci e sette anni, che, aggrappati al padre e non volendo a nessun costo abbandonarlo, , furono anch'essi giustiziati. Né qui si arrestò la persecuzione, che i mesi e gli anni successivi videro il sacrificio di altri martiri, fra cui S. Giustino, S. Proculo e S. Firmiano, tutti appartenenti a famiglie patrizie, S. Anastasio, amministratore imperiale della città ("civitatis curator"), S. Secondino, figlio di un alto ufficiale, S. Firmio, S. Fabio, S. Eustachio, S. Eusebio, S. Quinziano, S. Eulogio, S. Querulo ed un altro S. Fabio.
Tutti costoro vennero martirizzati tra il 304 e il 312, anno della fine della persecuzione.
Altri martiri furono S. Modestino, vescovo di Antiochia, ed i suoi compagni Fiorentino e Flaviano. Costoro, giunti per sfuggire alla persecuzione non certo casualmente ad Abellinum da Antiochia (i legami di sangue e di colleganza tra le due città, come attesta la stessa vita di S. Ippolisto, dovevano essere evidentemente ancora assai saldi nonostante la lontananza), dopo un breve ma intenso apostolato caddero anch'essi vittime della repressione pagana (312 d.Cr.). Questi ultimi martiri furono sepolti presso l'attuale Mercogliano, e le loro reliquie furono scoperte e traslate nella cattedrale di Avellino nel 1166.
I corpi di tutti gli altri martiri furono invece raccolti dai fedeli nella stessa cripta di S. Ippolisto. Cessate poi per sempre le persecuzioni con l'editto di Milano (313 d. Cr.) lo "Specus martyrum" potè essere finalmente aperto al culto pubblico, ed essere più degnamente sistemato, dato che si trattava in origine della cantina di una villa rustica sulla destra del Sabato, a sole poche centinaia di metri dalle mura della città, al di là del fiume. Come narrano gli "Atti" di S. Ippolisto, fu allora infatti costruita una scala di accesso alla cripta, il pavimento e le pareti della quale furono ornati da marmi e da mosaici, uno dei quali raffigurava il Salvatore circondato dai martiri abellinati. All'esterno della cripta venne inoltre formandosi un vero e proprio cimitero cristiano, in cui i fedeli defunti venivano "sodati cum sanctis", e che fu scoperto nel 1890 dall'insigne studioso delle antichità cristiane mons. Gennaro Aspreno Galante.
Sempre all'epoca costantiniana deve con verisimiglianza farsi risalire l'istituzione della sede vescovile di Abellinum. La città era infatti prospera, popolosa, dotata di un ampio territorio, ed aveva soprattutto una cospicua comunità cristiana, che aveva saputo testimoniare, durante l'ultima persecuzione, la sua fede con il sangue di numerosi martiri.
Altri ampliamenti e trasformazioni subì lo "Specus martyrum" ad opera del santo vescovo Sabino, succeduto nella carica episcopale nei primi anni del VI secolo a Timoteo, del quale è documentata la partecipazione nel 499 al Concilio di Papa Simmaco. S. Sabino apparteneva ad una delle più illustri ed antiche famiglie abellinati, la "gens Sabina", che traeva origins da Publio Catieno Sabino, legato militare di Augusto. L'eco del nome della ricca famiglia patrizia è vivo ancora oggi nel toponimo "Sabina", attualmente frazione di Aiello, che ricorda gli antichissimi "praedia Sabina".
Sempre nello "Specus martyrum" furono sepolti S. Sabino, spentosi nel 520, ed il suo fedelissimo diacono Romolo. Gli epitaffi che furono incisi dalla Chiesa di Abellinum sui loro sepolcri ne tramandano in modo imperituro il ricordo e ne scolpiscono efficacemente le figure, le quali gettarono vividi fasci di luce in un'età di crisi e di transizione. Sul sepolcro di S. Sabino, traducendo i versi latini, si legge:
Se una mente sa di non morire; se una volontà pura giammai si disfa in polvere insieme alle membra, tu sei vivo, o sacerdote, in questo mondo, per i tuoi meriti. Al tuo tumulo non può paragonarsi alcun monumento.
Tu fosti il soccorso dei cittadini, ai loro animi abbattuti sempre davi sollievo, pio nel cuore e nella mente. Seguace della giustizia, osservante della sacra rettitudine, giammai ti allettarono il disonesto guadagno negli inganni. Soltanto Dio era per te la mercede giornaliera. Poiché veneravi le cose sacre, non ti studiasti mai di violare ciò che è santo; i doni non corruppero la tua fedeltà
Cortese, gentile, umile tu fosti, pur essendo a capo della gerarchia. La tua mano era sempre ricca e liberale. La sede (vescovile) restaurata, o presule Sabino, dà chiara testimonianza delle opere egrege del suo illustre autore.
Sul sepolcro del "levita" (diacono) Romolo, defunto successivamente al suo vescovo, invece si legge:
Nella rupe, scavata dallo scalpello, tu scorgi un angusto sepolcro. Esso è la dimora del levita Romolo, che gode il regno dei cieli.
Chi mai potrebbe, ad occhi asciutti, narrarne la morte, la povertà cristiana, e l'amore per il suo santo Vescovo Sabino?
Egli lo segui con cuore puro. E con quali preghiere e con quali invocazioni egli, innanzi allo speco dei martiri supplicò di non essere privato del suo maestro, è testimoniato da tutta la patria.
La fede in Cristo lo riunisce a lui. Ora, più facilmente, egli ha ottenuto ciò che domandava.
Al di là del loro valore storico, pur notevolissimo, queste due stupende epigrafi fanno assurgere S. Sabino e S. Romolo a figure di valore universale, simboli autentici del Cristianesimo dei santi e dei martiri che ancora oggi, dopo un millennio e mezzo, ci parlano e ci avvincono col loro imperituro messaggio dal fondo dell'oscura ed umida cripta dello "Specus Martyrum".